“Quando ci si smarrisce, i progetti lasciano il posto alle sorprese, ed è allora che il viaggio comincia: Una Moto Guzzi, più di 20 mila chilometri, 9 Stati e 7 fusi orari, in 31 giorni
TI prego, non andare giù, aspetta. Il sole inesorabilmente tramonta alle nostre spalle, la luce del giorno gradatamente si affievolisce e le nostre pupille iniziano a dilatarsi al fine di permettere ai nostri occhi di adeguarsi al buio che inizia ad avvolgerci. La strada deserta che dinnanzi a noi pare non finire, si stringe all’orizzonte senza mai dare un tangibile segno di vita. La Siberia, cuore estremo di una Russia sconfinata, sembra che di colpo ci sia nemica. La nostra moto, anima meccanica e cuore rumoroso in quella notte di inizio Agosto 2011, ci spinge a proseguire, cercare, mai mollare.
Dagli specchietti retrovisori scorgo delle luci di auto che in lontananza, a grande velocità si avvicinano. Ci raggiungono, ci sorpassano, e mentre questo accade, dall’ abitacolo della prima delle due auto, un uomo, con dentatura d’oro, si avvicina al finestrino, mi guarda con occhi di ghiaccio, mostra qualcosa che vorrei non si fosse trattato di una pistola ma credo, purtroppo, di poter dire che di quello si trattasse. L’auto sterza verso destra, quasi ci urta con il rischio di farci finire nel fossato. Io freno bruscamente, l’auto ci precede ma anch’essa frena e si fa raggiungere. Accelero, li supero e cerco di distanziarli, ma loro sono veloci e ci raggiungono nuovamente. Attendo che mi siano di fianco, freno nuovamente e mi fermo. Attendiamo qualche minuto, l’auto scompare nel buio della notte siberiana. Ripartiamo con il cuore in gola, percorro alcune centinaia di metri sino a quando scorgo una stradina sterrata che scende verso destra sino ad una casetta in legno del distributore di carburante. Mi ci infilo, aggiro la casetta in modo tale da renderla come scudo visivo verso la strada.
Parcheggio la moto, spengo il motore e nel silenzio immacolato di un luogo terreno distante mille pensieri da casa, Gisella ed io rimaniamo in silenzio. Da est vediamo delle luci sulla strada, l’auto di prima sta tornando indietro. Si muove lentamente, forse ci sta cercando. Noi ci nascondiamo dietro la casetta in legno, vorrei parlare al cuore e dirgli di pulsare meno rumorosamente, vorrei dire al mio fiato di rallentare perché, causa la bassa temperatura della notte, potrebbero vedere il “fumo” del mio respiro. L’auto silenziosamente e lentamente passa e noi, mano nella mano, stretti come due bambini che giocano a nascondino, ci guardiamo. Con una smorfia che è un misto fra paura e soddisfazione, riusciamo a trovare il tempo, la forza ed il desiderio di darci un bacio, stringerci forte e sorridere.
Il viaggio, il nostro viaggio……..inizia ora.
Partiti giorni prima dall’Italia, Gisella ed io, soli, consapevolmente consci delle difficoltà ma altrettanto motivati a trasformarle in grandi ed indelebili ricordi, puntiamo verso Est, sino alla capitale Mongola di Ulaanbaatar, dove allora, e solo allora ruoteremo la nostra moto verso Ovest nel cercare di ritornare a casa. Parti con una sola certezza, quella di andare per cercare ciò che rende il mondo potenzialmente un immenso gruppo di sette miliardi di amici, parti per cercare e prima ancora donare…un sorriso.
Prima della partenza, sapendo che non saremmo riusciti a percorrere tutto il viaggio con un solo treno di gomme, spedimmo un pacco all’aeroporto di Ulaanbaatar. Il pacco, similare ad un pacco esplosivo, di forma circolare, conteneva due pneumatici nuovi ed alcuni barattoli di olio motore incastonati all’interno. Il tutto racchiuso dentro a centinaia di metri di nastro adesivo per pacchi, avvolto con cura meticolosa durante una afosa serata di fine Luglio nel nostro garage.
Avvolti dalla polvere delle strade della capitale che, per chi non sia mai stato in Mongolia, non cerco neppure di descrivere in quanto per essere credibile dovrei necessariamente definire infernali mentre forse l’aggettivo giusto non esiste, arriviamo nei pressi dell’ostello che avevamo identificato per le due notti successive. La stanza è minimalista, due brande in legno con materassi i quali, forse, avrebbero più storie loro da raccontare che non il sottoscritto, ci danno il benvenuto. A noi pare una reggia in confronto alla notte passata nascosti dietro la casupola di legno in Siberia giusto due giorni prima e, con il senno di poi, alle notti passate sotto il cielo della Mongolia.
Dopo poche ore, la moto è pronta. Gomme tassellate nuove per poter affrontare i quasi 2000 km di piste sterrate della Mongolia, olio nuovo, freni nuovi e soprattutto un nostro nuovo, profondo e sconfinato sorriso.
Il mattino successivo piove e le strade di Ulaanbaatar sono un intreccio di fango. È presto, sono circa le 6 e noi non vogliamo mancare ad un appuntamento.
Ciò che diede origine a questo viaggio fu la storia di un uomo.
Un uomo crudele, spietato, ma nel suo contempo valoroso e coraggioso. Riuscì a riunire tutte le tribù dell’estremo Est conquistando aree geografiche immense, uccidendo gli uomini e stuprando le donne. Pare, che in piccole percentuali, anche noi e quindi forse anche io, potremmo discendere ancora da Gengis Khan. Non si sa dove sia nato quest’uomo, ma si conosce dove sia morto. Oggi in quel luogo vi è un monumento enorme, enorme come la fama di costui, enorme come la voglia di conoscere di Gisella ed io. Ci recammo la, ad Est della capitale nonostante la direzione giusta per tornare a casa fosse l’ovest.
Riattraversiamo Ulaanbaatar e puntiamo verso Ovest.
Segue su ....
https://medium.com/italia/quando-davvero-il-viaggio-inizia-sulle-orme-di-gengis-khan-ab7daa68563f